Moro, un immigrato?

Nel corso dei laboratori di educazione all’immagine che svolgo presso le scuole con l’Associazione Culturale Camera21, adotto ormai da oltre dieci anni un metodo semplice per aiutare le ragazze e i ragazzi a guardare con attenzione le fotografie che mostro loro. E’ in realtà un metodo efficace per ogni età, dai piccoli delle elementari agli adulti con cui mi capita di lavorare durante i corsi di formazione.

Avendo davanti a sé una fotografia, spesso una fotocopia in bianco e nero di una fotografia d’autore o un’immagine estrapolata da un servizio fotografico pubblicato su un magazine, chiedo ai partecipanti di individuare e numerare, con un pennarello colorato, i punti sui quali il loro sguardo si posa, compiendo un percorso all’interno del frame. Poi ognuno è invitato a mostrare a tutti la propria immagine e a descrivere il percorso compiuto. I ragionamenti che scaturiscono da questa attenta osservazione ci permettono di trarre dalla fotografia il massimo delle informazioni possibili.

Quando ho l’occasione di lavorare su progetti che coinvolgono gli studenti liceali, non manco mai di portare alcune fotografie che considero importanti documenti storici. 

Sappiamo che questa generazione di studenti comunica tra pari al 90% attraverso la condivisione di immagini, ed è questo il motivo per cui ci battiamo da anni perché nelle scuole ci si impegni a farli ragionare sulle fotografie.

Tra le fotografie che sottopongo sempre all’attenzione degli studenti, porto la fotocopia della fotografia che ritrae Aldo Moro, la polaroid scattata dai brigatisti e diffusa il 21 Aprile del 1978. Si tratta della seconda fotografia diffusa dai brigatisti, quella con il quotidiano La Repubblica che titola: Moro assassinato? Utile ai rapitori a dimostrare che il Presidente della Democrazia Cristiana fosse ancora in vita. 

Nelle classi molti non sanno di chi si tratti e in ogni caso ognuno è invitato a compiere il suo percorso visivo all’interno dell’immagine senza confrontarsi o comunicare con i compagni.

Nei manuali di testo di Storia della classe 5a questa fotografia viene quasi sempre pubblicata, tuttavia il programma del corso di Storia, non giunge mai fino agli anni settanta del ‘900. Va detto della scarsa qualità delle riproduzioni delle fotografie in generale, ad uso dei libri di testo, ed in particolare di questa. In alcuni volumi infatti la fotografia è molto contrastata o tagliata e non vi si vede il giornale.

Nel loro percorso visivo, gli studenti notano spesso la stella a cinque punte, “logo” delle Brigate Rosse, come prima cosa, poi il volto di Aldo Moro, il suo sguardo che appunto sembra domandarci qualcosa, poi il giornale, che tuttavia faticano spesso a riconoscere in quanto tale. 

Questa generazione di studenti ha infatti scarsa dimestichezza con i giornali stampati e in particolare con il quotidiano. 

Poi gli studenti notano la scritta Brigate Rosse e i vestiti.

Ma cosa sono in grado di captare, di leggere, di capire i ragazzi e le ragazze alla visione di questa fotografia? 

In una classe 4a del Liceo Don Lorenzo Milani di Napoli, composta da 18 studenti, dove ho lavorato nel 2018 con la collega Lina Pallotta, classe che prendo a campione tra molte, due studenti riconoscono Aldo Moro, hanno già visto la fotografia, ma non sanno collocarla nella linea del tempo, non sanno veramente cosa sia successo.

Questa è forse la prima fotografia icona della storia italiana, in quanto capace di sintetizzare un periodo storico del nostro paese, di suscitare emozioni e sentimenti comuni a tutti quelli che lo vissero in prima persona, è icona per l’uso strumentale e consapevole che i brigatisti ne fanno ad uso comunicativo, quasi pubblicitario come afferma Belpoliti, è icona per la diffusone che ebbe all’epoca attraverso i media, la stampa e la televisione. Solo un’altra fotografia, nella storia italiana, contende, a mio parere, con questa il primato per il forte potere comunicativo ed emotivo, parlo del ritratto dei Giudici Falcone e Borsellino, scattato da Tony Gentile nel 1992. 

Questa fotografia divenne icona proprio anche per la presenza della stella, immagine nell’immagine che, infatti, i ragazzi individuano subito. Una fotografia scattata in polaroid con film bianco e nero, in un momento in cui la polaroid era il sogno di molti bambini, che fu diffusa a mezzo stampa tagliata e che passò alla storia solo in questa versione.

I nostri studenti a mala pena sanno chi è Moro, non conoscono la Democrazia Cristiana, né le Brigate Rosse. Non hanno letto i ragionamenti di Leonardo Sciascia sulle lettere di Aldo Moro e nulla dell’ampia letteratura che scandaglia molto di quella tragica vicenda e di quel periodo storico. Per tornare alle fotografie non sanno nulla delle riflessioni di Marco Belpoliti rese pubbliche nel piccolo libro “La foto di Moro” del 2008 e poi gli interessanti ulteriori approfondimenti contenuti nelle due versioni del volume ” Da quella prigione – Moro, Warhol e le Brigate Rosse”. I dubbi che egli solleva circa il mancato studio delle fotografie come reperto giudiziario, come traccia, indizio e dove l’autore mette la prima e la seconda polaroid a confronto, scandaglia l’interazione e la posizione tra Moro e il brigatista,  ipotizza l’intenzione e la cultura visiva del brigatista che ha scattato l’istantanea.

Non conoscono le riflessioni di Tano D’Amico, di Giovanni Fiorentino e Raffaella Perna, raccolte, tra altri contributi, nel libro “Le Polaroid di Moro”, a cura di Sergio Bianchi e Raffaella Perna.

Non sanno nulla, e di ciò non sono colpevoli, e quindi estrapolano dall’immagine le informazioni che sono capaci di raccogliere: “si tratta di un uomo in prigione, un ostaggio, forse un prigioniero dell’Isis?

No, no la croce non corrisponde…non è l’Isis, c’è scritto Brigate Rosse”, affermano.

Che il soggetto ritratto sia una vittima gli studenti lo intuiscono subito, come evidenzia sempre Belpoliti, dalla sua posizione rispetto al fotografo, l’uomo guarda in macchina dal basso verso l’alto.  E’ in una posizione di netta inferiorità. 

Malgrado la stella, malgrado la scritta, si alza una domanda dalla classe: ”E’ un immigrato?”

Alcuni ridono, altri cercano risposta nei nostri sguardi. Siamo nel pieno della propaganda mediatica del Governo Salvini contro l’immigrazione clandestina e questa narrazione è così potente da alterare ed influenzare la percezione della realtà. Queste ragazze e questi ragazzi compiono tutti 18 anni nel corso dell’anno scolastico, eserciteranno a breve il loro diritto al voto, si informano prevalentemente attraverso i social media, come detto non leggono i giornali.

L’osservazione di questa fotografia ci consente di affrontare molte questioni, alcune di natura più tecnica, quali l’invenzione e la diffusione della Polaroid, che come afferma Belpoliti è già un superamento della fotografia analogica, il suo ritorno alla ribalta degli ultimi anni che i ragazzi conoscono bene;  altre considerazioni più di natura “filosofica”, quali la differenza tra originale e riproduzione o copia e le alterazioni di forma e contenuto imposte nelle fotografie originali dal loro utilizzo attraverso altri media, la relazione tra osservatore e osservato, posizione che i ragazzi colgono immediatamente, l’uso “pubblicitario” della fotografia fuori da un contesto di comunicazione prettamente commerciale, solo per fare alcuni esempi.

Pensieri che da soli sono sufficienti a costringere gli studenti a domandarsi sempre: da chi è stata scattata questa fotografia e perché? Quando? Da chi è stata pubblicata? E perché?

Sto guardando una copia o un originale? E’ stata tagliata? Manipolata?

Queste domande sarebbero sufficienti a trasformare gli studenti da semplici fruitori a fruitori consapevoli, pronti a trarre tutte le informazioni possibili dal documento che vedono leggendovi però anche le possibili intenzioni del fotografo, del committente o dell’editore, le astuzie, per essere eufemistici, che ogni fotografia nasconde in sé.

©Simona Filippini

Flusso/Materia – Il rosso è un maglione di lana

9Fotoritocchi ©Antonella Cappabianca

“Il verde è l’erba che taglia mio papà, ha un odore particolare secondo le stagioni, verde scuro è l’erba tagliata in primavera, il rosso è un maglione di lana, la sensazione di quel maglione indossato in un giorno di sole. Per me il colore è pasta, materia, il blu è freddo e opprimente, un colore difficile che ti mozza il respiro, ti viene contro, il rosso ti abbraccia, ti accarezza.

Il bianco è asettico, mi fa pensare alla neve ma credo sia una suggestione letteraria, impossibile scindere quello che sei da quello che hai imparato, sei anche in base a ciò che hai imparato, mi piace il bianco delle nuvole bianche, come la panna montata, sono golosa, ricordo una foto della Danimarca che è un toast al salmone, nella foto ci sono scogli, cielo e le nuvole, la nuvola al centro rappresenta il toast, mentre scattavo io sentivo quel profumo di toast al salmone.

Il marrone è ciambellone, marrone ancora crudo, marrone dorato, marrone sbruciacchiato, un rito familiare della domenica, mio padre controllava la cottura mentre mamma ci faceva il bagno. Gli odori cambiano, non sono fissi, lo stesso vale per il colore, puoi vederlo diverso a seconda dei giorni e dall’intensità, così come i colori della luce.”

Riporto qui la testimonianza resami da Antonella Cappabianca, avvocato, fotografa, non vedente dalla nascita. Ho avuto la fortuna di aiutare la Cappabianca nella selezione e nella presentazione di alcune sue fotografie per un concorso, non mi dilungo in questa sede sui molti e appassionanti insegnamenti che l’esperienza mi ha trasmesso, ma ciò che riporto mi è stato utile a comprendere quanto un utilizzo più esteso dei nostri sensi ci aiuterebbe a vedere e toccare la realtà che ci circonda, a fare esperienza del mondo in modo diverso.

Antonella Cappabianca vede la materia dei colori perché ne ha fatto esperienza tattile, olfattiva ed emotiva.

Le arti elettroniche ci dicono proprio questo: la luce è materia, le onde sonore ed elettromagnetiche sono materia e il non riuscire a vedere questa materia ad occhi nudi non ci consente di dubitare della sua esistenza. Le arti elettroniche giocano con questa materia invisibile e ce la rendono visibile. In seno al gruppo Fluxus, nato in Germania negli anni ’50, si ebbero le prime sperimentazioni di artisti quali Wolf Vostell che nel 1963 espone la prima videoistallazione Televion Decollage presso la Smolin Gallery a NY. L’artista tedesco inventore della tecnica che chiamò Decollage, ibrido tra collage e decollo, a significare la volontà di rivelare la struttura degli oggetti di uso quotidiano, scelse proprio il monitor televisivo come protagonista della sua poetica.

L’artista Nam June Paik (1932-2006) coreano di nascita e pianista classico di formazione, allievo di Stockhausen in Germania e Cage negli USA, grazie alla frequentazione con l’artista Fluxus Vostell subisce il fascino della tecnica televisiva e sempre nel 1963 espone 13 Distorted Tv Sets presso la Galleria Parnasse di Wuppertal.

Si legge nel libro Videoarte – storia, autori, linguaggi di Alessandro Amaducci“Contemporaneamente (Paik) è affascinato dalla possibilità che il televisore e l’immagine elettronica, opportunamente manipolati, possano produrre immagini dominate dalla velocità, dal caos, dai colori puri, dall’imprevedibilità: i risultati possono apparire kitsch, di cattivo gusto, senza controllo dal punto di vista formale.

Ma il suo progetto è proprio questo: aprire la scatola chiusa della tecnologia e renderla “ridicola” approfittare dei suoi difetti, degli incidenti, dei malfunzionamenti, degli errori.”

Anche Steina (1940) e Woody(1937) Vasulka, praghesi di nascita e attivi dal 1964 a New York, come molti degli artisti elettronici costruirono macchine utili ad indagare il flusso della materia invisibile. Violinista e teorica della musica lei, ingegnere meccanico e studioso di cinema e televisione lui, le loro sperimentazioni spaziano dall’interazione suono-immagine per cui un segnale video viene deformato dal suono del violino, all’invenzione di strumenti capaci di creare immagini su base algoritmica trasformandole in segnali analogici e alla robotica con la “scoperta” del punto di vista della macchina.

Già nel 1947 il pittore italiano Lucio Fontana con il Primo Manifesto dello Spazialismo aveva dichiarato: ” Ci rifiutiamo di pensare che scienza e arte siano due fatti distinti”, concetti ripresi poi nel ’52 nel Manifesto del movimento spaziale per la televisione che come sostenuto da Marco Maria Gazzano nel libro Kinema – La materia del video, “anticipa di quasi dieci anni la ricerca di Nam June Paik”.

©Simona Filippini

Appunti di viaggio – Roma/Firenze in treno

Eikon vs Logos –

Foto Elliot Erwitt - Camera 21
Esempio di percorso visivo realizzato da Patrizia, 10 anni, sulla nota fotografia di Elliot Erwitt scattata a Kissimmee, Florida 1997.

Recandomi in treno a Firenze in compagnia di mio nipote Filippo, ci imbattiamo nella conoscenza di una signora napoletana e di suo figlio.
La signora maneggia nervosamente il telefonino, sbuffa, brontola, toglie e mette gli auricolari, di tanto in tanto dal dispositivo “scappa” una musica melodrammatica a volume alto.

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